di Jenny Bassa
5 aprile 2014
Da Tunisi a Douz attraversando l'entroterra
Atterriamo a Tunisi dopo due ore dal decollo a Milano Malpensa e per prima cosa spostiamo indietro di 60 minuti le lancette dell'orologio: in Tunisia l'ora è soltanto solare. Ci attende un minibus diretto a Douz, cittadina di quasi 30 mila abitanti nel sud della Tunisia, definita "la porta del Sahara", dove dormiremo alcune notti, prima e dopo i tre giorni nel deserto.
Che si sia alle porte del Grand Erg (il mare di sabbia) lo si capisce fin dalla capitale: tutto appare impolverato, le auto soprattutto, dentro e fuori. Ma non è polvere. E' il fesh fesh, sabbia sottilissima proveniente dal Sahara, che impalpabile quanto il borotalco non ci lascerà più durante tutto il viaggio. Anzi, ce la ritroveremo in valigia anche una volta tornati a casa.
Ma lasciata alle spalle la capitale da oltre 700 mila abitanti, con le sue grosse arterie lungo le quali sventolano, alte, innumerevoli bandiere rosse nazionali, i colori si impongono con tutto il loro calore, nonostante il cielo sia coperto di nuvole. Se davanti infatti ci precede una lunga e grigia striscia d'asfalto, ai lati sfilano ampie piantagioni di viti e ulivi, e campi di frumento recintati da filari di fichi d'India coi loro simpatici frutti rossi come posticci nasi di clown.

Nei sedili in fondo al minibus sono sedute anche due giovani donne tunisine, di cui una con il velo islamico: capiremo che sono le aiutanti di Mahjoub, il cuoco dello staff che cucinerà per noi durante il tour nel deserto. Proprio la ragazza con il velo ad un certo punto consegna un cd all'autista e dopo pochi istanti parte a cantare un Eros Ramazzotti d'antan con "Una storia importante". Gusti a parte, una squisita carineria nei nostri confronti.
Nel frattempo, all'altezza di Enfida, sulla costa, lasciamo l'autostrada per addentrarci nell'entroterra, tra file di eucalipti e tamerici a bordo strada e colline che sembrano di cartapesta sullo sfondo. Ci accorgeremo presto che è la parte più povera del Paese, quella che più ha risentito degli effetti della "rivoluzione dei gelsomini" iniziata a fine 2010. La caduta del regime e l'instabilità politica infatti, oltre alla crisi economica europea, ha colpito in particolare le attività legate al turismo, e, di riflesso, anche quelle agricole che ora non hanno più scambi nè con la costa, nè con il nord del Paese, né con i villaggi a sud, a ridosso del deserto, dove per lo più si reca(va)no i turisti, soprattutto francesi, inglesi e tedeschi.
Così, mentre il sole, nel frattempo impostosi sulle nuvole, cala alla nostra destra accendendo le facciate delle poche abitazioni che costeggiano la strada (spesso al grezzo, seppure abitate), notiamo susseguirsi contadini che vendono soprattutto piselli in bacello, disposti a mucchi su banchetti improvvisati. Alcuni attirano l'attenzione dei passanti sventolando sacchetti di plastica colorata.
Ogni tanto si incrocia anche qualche mucca o qualche gregge di pecore e caprette sorvegliati a breve distanza da uomini seduti lungo la banchina stradale, incuranti del traffico che sfreccia a pochi metri dalle loro spalle.
Ma la cosa più curiosa, oltre ai comodi giacigli per cicogne che qui costruiscono su piattaforme in cima ai tralicci, sono i distributori fai da te di carburante, di contrabbando naturalmente. Numerosissimi lungo la strada, si riconoscono semplicemente dalle taniche di plastica colorata disposte a file, una sopra l'altra, da cui pende una canna: basta poi un imbuto e i clienti pagano la metà del prezzo delle pompe delle compagnie petrolifere.
Anche i ristoranti dove si mangiano pecore e agnelli si riconoscono subito: la loro pelle è appesa fuori, penzolante, nel portico di ingresso, quando non c'è addirittura una mezzena avvolta nel cellophane.
A farla da padrona è comunque la spazzatura, sparsa ovunque, a tratti si direbbe ad arte, e concentrata in alcune zone in ingresso o in uscita dai villaggi, da dove si vedono salire fumi affatto salutari. Inutile nasconderlo: l'immondizia qui è un grosso problema, e par proprio una questione di cultura, che richiederà quindi parecchio tempo perché si risolva.
Ci si chiede come gli autoctoni (qui come in molte altre aree meno sviluppate del mondo) possano tollerare, senza soluzione di continuità tra periferia e centro città, lo spettacolo di sacchetti di plastica celesti impigliati tra le spine dei fichi d'India e tra i rami degli alberi, o di bottiglie di plastica e lattine di birra accartocciate lungo le strade, assieme a cartacce, cartoni e macerie. A farci dimenticare questa riflessione ci pensa il buio, ma soprattutto una tempesta di sabbia niente male che incrociamo per alcune decine di chilometri all'altezza di Gafsa. Dal parabrezza la visibilità diventa sgranata e assume la colorazione tipica delle fotografie in seppia, mentre nel cono di luce davanti a noi l'asfalto viene continuamente attraversato da repentine onde marroni (VIDEO).

Prima di entrare, però, è impossibile non soffermarsi nella bottega a fianco del ristorante: un tenero vecchietto, curvo sul marciapiede, tagelmust bianca in testa e incudine tra le gambe, fabbrica in continuazione taccuini, braccialetti, borse, borselli, scarpe e ciabatte (per suole ritagli di copertoni), tutto rigorosamente in pelle, di cui il negozio alle sue spalle è straripante.
Da Mahjoub siamo una ventina di persone sistemate in un'unica lunga tavolata che va ad occupare quasi tutto lo spazio disponibile. Il servizio è di ottima qualità, per non parlare delle pietanze, di cui cominciamo a farci una cultura. A partire dall'harissa, una salsa a base di peperoncino rosso, aglio e olio d'oliva, servita in un piatto a metà col tonno e accompagnata da olive nere. Va mangiata intingendo il pane, e a piccole dosi per chi non ama particolarmente il piccante.
L'harissa è anche alla base della gustosa zuppa (meno piccante della salsa) servita come primo piatto, e composta inoltre da farro, ceci, prezzemolo e spezie, in cui va spremuta una fetta di limone: molto fresca.
Come entrèe però mangiamo prima il brik a l'oeuf (che di lì a qualche sera impareremo a cucinare nella piccola cucina del ristorante), specialità tunisina che si presenta simile a una crepe, di pasta filo, fritta nell'olio, con dentro un uovo intero fresco, patate bollite, capperi e prezzemolo. Si mangia a partire dal centro, tenendo i bordi con le mani. Per secondo ci viene servito un piatto di carne mista (pollo grigliato, agnello e salsicette di tacchino), con contorno di verdure fresche (cappuccio e pomodoro) e patatine fritte. Per finire fragole e banane e volontà. Il tutto annaffiato da un ottimo Pinot Noir (Carthage).
6 aprile 2014
Da Douz a Tembain, nel Sahara
A colazione ci troviamo in hotel in compagnia di numerosi motociclisti pronti nelle loro tute in pelle per salpare nel Sahara a bordo di enduro appositamente modificate e attrezzate.
Qui tutti i veicoli infatti sono più o meno visibilmente modificati. Del resto, non si contano le officine meccaniche che si affacciano in strada. Il parco veicoli della Tunisia è piuttosto datato, ma è comprensibile: lo stress cui sono sottoposti è notevole a causa delle alte temperature, delle strade dissestate (quando ci sono) e della sabbia che si insinua dappertutto. Salvo casi eccezionali, pertanto, comprare un mezzo nuovo di zecca qui è una follia. Diffusissimi, per dire, sono i motorini tradizionali (rigorosamente guidati senza casco, magari anche con tre persone a bordo), sui quali è evidentemente più facile mettere le mani rispetto agli scooter, più nuovi, ma con troppa elettronica. I fuoristrada che affrontano le dune del deserto, poi - per lo più pick up Toyota, Nissan e Isuzu -, sono dotati di speciali filtri anti-polvere e snorkel, tubi verticali d'aerazione per il motore, applicati di lato, sul muso dei veicoli.
Per porre una barriera all'azione onnivora della sabbia, le stesse strade sono a loro volta fiancheggiate da lunghe e alte dune, sulla cui cresta sono conficcati graticci di foglie di palma. A livello strada, invece, notiamo spesso correre un tubo nero di gomma: Memeth, l'autista del comodo fuoristrada di cui sono passeggera assieme ad altre due compagne di viaggio, Bruna e Susanna, ci spiega che porta l'acqua dai pozzi alle stazioni di estrazione del gas, di cui la Tunisia è ricca.
Qui, alle porte del Sahara, la sabbia è chiarissima, bionda o meglio ancora dorata, perché mescolata ai sali del vicino grande lago salato Chott El Jerid. Più a sud invece il colore si fa via via più scuro, da rosa fino a diventare fulvo (il termine "Sahara" per gli arabi connotava originariamente uno spazio vuoto dal suolo fulvo): i granelli, del resto, si formano per effetto della "corrasione", l'erosione delle rocce da parte delle particelle solide trasportate dal vento, o anche per le "esplosioni" delle rocce sottoposte a forti sollecitazioni dalle notevoli escursioni termiche. E sono così sottili, i granelli, che cominci a sentirli dappertutto: sulla pelle del viso, sulle labbra protette dal burrocacao, tra i denti. E alla fine non ci fai neanche più caso.
Alcune del gruppo approfittano della sosta prandiale per farsi avvolgere attorno al capo dagli autisti, anche loro di origine berbera come la maggior parte della popolazione nordafricana, una fascia di cotone colorata lunga alcuni metri, fino a formare la tagelmust. Quello che può sembrare un vezzo, si potrà in realtà rivelare assai utile in caso di tempesta di sabbia. Il tipico copricapo dei tuareg, solitamente color indaco, infatti, non solo ripara la testa dal sole, ma copre le orecchie, le narici e la bocca dalla sabbia, grazie ad un lembo del velo che, lasciato libero sulla schiena o abbassato sul collo quando non serve, all'occorrenza si fissa all'angolo opposto del turbante, lasciando fuori solo gli occhi.
Quindi si riparte e dopo poco si devia dalla strada battuta per cominciare a fare fuori-strada davvero. Alle dune vere e proprie, alte alcune decine di metri, arriviamo comunque verso il tardo pomeriggio. Per ora quelli che affrontiamo sono per lo più cumuli di sabbia sparsi, simili a seni chiari su un fondo di piccole pietre color tabacco, che assieme creano un suggestivo colpo d'occhio. Qua e là sono inoltre disseminati tanti cespugli alti fino a un paio di metri, dalle foglie fattesi nel tempo sottili come steli per resistere meglio al clima ostile. Memeth trova un piccolo fiore rosa tra questa vegetazione e ci spiega che se si beve latte di capra che ha mangiato di quei fiori, è probabile che si avverta sonnolenza o comunque ci si senta più rilassati.
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La nostra carovana |
Non stupisce quindi che anche la nostra carovana si fermi più volte per lasciare andare uno dei nostri autisti a verificare che non abbiano bisogno di aiuto quei veicoli che ogni tanto si vedono fermi in lontananza, tra le dune. O che ogni volta che si incrocia un altro veicolo sulla stessa via, come minimo ci si fermi, si abbassino i finestrini e ci si scambi un saluto o un consiglio di viaggio.
Gli imprevisti comunque non potevano mancare anche nel nostro convoglio, fin dal primo giorno: o per insabbiamenti (VIDEO) o per guasti alla meccanica (VIDEO) o per forature dovute ai letali aculei di alcuni piccoli arbusti, i nostri 4x4 di almeno 4000 cc di cilindrata hanno dovuto essere di volta in volta trainati o aperti nel cofano o sollevati con il cric.
S'impara così che sul fesh fesh (VIDEO), per dire, va tenuta la pressione bassa nei pneumatici, perchè possano "galleggiare" sulla sabbia, altrimenti quando si deve accelerare in salita per superare una duna, si rischia letteralmente di scavarsi la fossa.
Il fesh fesh può comunque essere letale anche nei tratti pianeggianti: a volte è talmente impalpabile che par viscido sotto le ruote, e attanaglia i veicoli come sabbie mobili. In questi casi tirar fuori un 4x4 può costare anche un giorno di lavoro col rischio che finiscano per "impantanarsi" anche i veicoli della carovana che provano a trainare quello in panne, per quanto pesanti.
Per questo, quando qualche giorno più tardi, Massimiliano, il tour leader, mi inviterà a guidare il suo fuoristrada fra le dune basse ma insidiose in direzione El Faouar, il mio unico obiettivo è non fermarmi mai, tenendo il motore su di giri con marce basse.
Nel Grand Erg può inoltre capitare che ci si disorienti a causa della sabbia in continuo movimento o che veicoli della stessa carovana si allontanino tra loro fino a perdersi. A quel punto, anche se c'è campo per parlarsi al cellulare, non c'è niente di meglio che darsi appuntamento ai piedi di un rilievo roccioso visibile a chilometri di distanza, come Tembain, dove siamo diretti oggi: poche sono del resto le rocce non ancora del tutto erose dal vento.
La sera, a cena, noi passeggeri non riusciremo a nascondere allo staff logistico che in fondo è entusiasmante per noi assistere alle loro manovre attorno ai veicoli, soprattutto quando i 4x4 "sgommano" per emergere dal fesh fesh, creando spettacolari getti di sabbia arancione, alti anche alcuni metri. Ragionando col nostro metro "europeo", pensiamo che per loro si tratti piuttosto di seccature, di contrattempi fastidiosi: quelle cose insomma che ti mandano in bestia. Invece ci rispondono che è un divertimento, e guai se non fosse così.
Slim, per dire, che è innanzitutto oncologo a Tunisi, mi confida che esperienze come queste, nel deserto, lo fanno sentire meglio, lo rilassano, gli permettono di scaricare la tensione. Massimiliano, che pure si diverte da matti ad affrontare le dune col suo scomodo Nissan Patrol, sostiene addirittura che nel deserto gli spariscono d'incanto le allergie di cui soffre in Italia. Benny, infine, italiano nato in Germania, ma residente a Douz da anni, ci spiega che il deserto pone ogni giorno sfide diverse e ogni giorno combatte con o contro la sabbia, con o contro la propria auto, e senza mai prendersela più di tanto.
Si capisce, insomma, che il deserto è una palestra: si scoprono i propri limiti e si impara a gestirli al meglio. Non solo quelli fisici, per l'adattamento del proprio corpo ad un clima estremo, ma soprattutto mentali: occorre saper affrontare continui cambi di situazione, momenti difficili e imprevisti, senza scoraggiarsi o dare di matto, perché non serve a nulla, anzi, potrebbe costare caro. Andare nel deserto, insomma, è un viaggio nello spazio, ma anche dentro se stessi.
Il sole sta scendendo all'orizzonte, dando luogo a scenari che in genere vediamo solo nei desktop dei nostri computer. Ma quello che vedo con i miei occhi supera addirittura quelle immagini sicuramente ritoccate da abili grafici per esaltare forme e colori. In un contesto così vasto, del resto, poter godere della terza dimensione è un vantaggio impareggiabile, con risultati mozzafiato. Al punto da ingenerare le reazioni più diverse e inaspettate fra tutti noi che mettiamo piede per la prima volta nel Grand Erg Orientale, il mare sabbioso che si estende dall'Algeria al sud della Tunisia.
Persino
coloro che, nel gruppo, hanno girato in lungo e in largo il mondo,
ammettono che una bellezza tale non l'hanno mai trovata. Così
c'è chi resta semplicemente senza parole, chi si toglie gli scarponi
per godere del contatto con la sabbia finissima, chi si mette a correre
lungo le creste delle dune alte decine di metri, nonostante i piedi
continuino ad affondare, chi si rotola lungo i fianchi, chi si spinge
fino in cima alla collina di sabbia più alta per vedere cosa c'è oltre,
chi invece tenta di abbracciare con lo sguardo la distesa infinita che
lo circonda, o chi si siede soltanto per assaporare fino in fondo
un'emozione mai provata prima. Per quanto riguarda me, anche se condivido quanto sostiene Mano Dayak, scrittore nigeriano e portavoce dei tuareg, "Il deserto non si racconta, si vive", da "piccola reporter" voglio almeno provare a dire la mia.
Se la perfezione e la pulizia delle forme è opera del vento, è poi merito del sole esaltarne i chiaro-scuri e i contrasti cromatici, aumentando il fascino di un luogo che a tratti sembra un'allucinazione. Del resto, se si prova a toccarlo con un dito, quasi a voler verificare che non siano scherzi dell'immaginazione, di colpo la sabbia, fine com'è, frana fino in cima alla duna. Ed è uno struggimento, perché par di aver compromesso irrimediabilmente un'opera d'arte, se non fosse che qui basta un soffio di vento a rimettere tutto in ordine, come per magia.

Tuttavia la temperatura scende più del previsto e alla fine, dopo un
aperitivo sotto una tenda di stoffa berbera, seduti su comodi divani e
poltrone imbottiti, si cena in un'altra tenda, con calici e servizio da
tavola in tipica ceramica colorata.
Ma prima della cena, quando si era già fatto buio e la maggior parte dei miei compagni di viaggio era già seduta a tavola, ho assistito alla preparazione del pane cotto nella sabbia.
Un'esperienza unica. Inginocchiato a terra, un indigeno membro dello
staff, nei tipici colori bianco del copricapo e blu della casacca, a
fianco di un fuoco acceso sulla sabbia con rami secchi raccolti nei
dintorni, impastava il pane in una larga terrina in metallo. Con un ramo
ha quindi smorzato le fiamme e spianato le braci incandescenti, su cui
ha adagiato l'impasto appiattito. Dopo averlo ricoperto con ceneri e
braci, lo ha lasciato cuocere là sotto per 15-20 minuti, durante i quali
abbiamo provato a scambiare qualche parola in almeno tre lingue per
riuscire a capirci. Quindi ha dissotterrato il pane e lo ha adagiato
fumante sopra a un telo in cotone, steso lì a fianco sulla sabbia. Ne ha
spezzato una fetta e me l'ha porta. L'ho divisa a mia volta per
condividerne una metà con lui e, assaggiando, eravamo chiaramente
d'accordo sul risultato: ottimo.
Terminata la cena, in un clima di festa ci
trasferiamo fuori, abbracciati dalle candeline sulla sabbia, ancora
accese. Sopra di noi una luna quasi piena ci guarda sorniona fra alcune
nuvole scure, di cui illumina i contorni. Fa fresco nel deserto, la
notte, non c'è che dire, ma siamo tutti ben coperti. Anzi, di lì a poco
cominciamo a toglierci strati di vestiti, perché arriva uno dello staff,
abitante del deserto, si siede su una piccola duna e improvvisa una
melodia tipicamente africana battendo il ritmo su un piccolo tamburo (VIDEO-SONORO).
E'
un attimo: arrivano i camerieri, gli aiuto-cuoco, gli autisti, e ci
ritroviamo tutti a ballare attorno ad un centro immaginario. Si mettono a
cantare e ad ancheggiare pure le due donne tunisine che collaborano con
Mahjoub in cucina, di cui una, taglia forte, rivela una grazia e una
simpatia insospettate. L'altra, giovane e fascinosa, si avvolge
sapientemente un velo colorato attorno ai fianchi, mentre un cameriere
filiforme, ammirato da tutti noi italiani per i movimenti trattenuti
eppur sinuosi, mi prende per mano e mi invita al centro a ballare con
lui. Davanti a tanta grazia, evidentemente innata da queste parti, mi
sento goffa come un elefante marino, ma decido di infischiarmene per
godermi appieno un momento di festa irripetibile.
Me ne vado a letto (un
letto vero e proprio, con rete, materasso, lenzuola e piumino) in una
confortevole tenda da 8 posti, piena di tappeti, che là fuori qualcuno
sta ancora chiacchierando. A volerlo, potrei sentire tutto quello che
dicono. Sto infatti scoprendo che nel deserto l'acustica è
eccezionale: addirittura a centinaia di metri di distanza si possono
attribuire le voci alle rispettive persone senza margine di errore,
persino per chi, come me, non ha un gran udito. Col buio, poi, è ancora
più vero, forse perché non si viene distratti da quello che di giorno
vedono gli occhi.
Poco prima mi sono lavata i denti all'aperto, con lo spazzolino in una mano e una bottiglietta d'acqua nell'altra. Quanto alla doccia,
a causa di un problema tecnico, non abbiamo potuto usufruire dei box
vetrati (sì, proprio così!) allestiti in un'altra tenda ancora, per cui
ci siamo arrangiati senza problemi con le salviette umidificate,
lasciando però detto allo staff che nel deserto è più che sufficiente la
classica sacca d'acqua da campeggio con rubinetto.
Già che ci siamo un accenno anche al wc:
c'è anche quello in questo campo, con un ingegnoso meccanismo a
pompa, nella stessa tenda delle docce. Ma nel deserto, specie
spostandosi in carovana, non c'è niente di meglio del riparo di una
duna, dove si cancella ogni traccia semplicemente con la sabbia mossa da
un colpo di piede. Tant'è che ad ogni sosta della nostra carovana, è
impossibile non notare l'allontanamento simultaneo, a raggiera, delle
donne alla ricerca della duna più adatta ai propri... bisogni.
7 aprile 2014
Da Tembain all'oasi di Ksar Ghilane (Grand Erg Orientale - Sahara)
Ci si sveglia col sole e dopo aver fatto colazione all'aperto (all'italiana, con il Nescafè e la Nutella spalmata sul pane cotto nella sabbia, o alla nordafricana con corna di gazzella, dolcetti, biscottini tipici e salsiccette di tacchino), non resistiamo dall'esplorare ancora quelle alte dune che circondano da un lato il nostro accampamento.
Il sole del mattino, del resto, offre giochi di forme e colori ancora diversi rispetto al tramonto. La dune sono ora biondo-pallido e la brezza sembra assumere corpo mentre le accarezza, illuminandone i profili in controluce. Spiccano a quest'ora anche le impalpabili zigrinature create dal vento sulle dune durante la notte.
Di lì a poco la carovana riparte verso est, in direzione Ksar Ghilane, combattendo e rimirando allo stesso tempo il fesh fesh, e attraversando panorami straordinari. Non a caso da queste parti sono stati girati i film Il paziente inglese e poco lontano, a Tataouine, Star Wars.
Fa più caldo del giorno prima e tenersi idratati e la testa coperta è fondamentale: l'acqua comunque non manca mai. Se ne dovrebbero bere 4 litri, ma per chi non è abituato è difficile. Una di noi comincia ad accusare formicolii ad un braccio e ad un piede, ed espelle quasi subito l'acqua che beve. E' un po' spaventata, ma lo staff spiega che non è niente di grave: evidentemente il suo corpo fa fatica ad abituarsi al deserto. Io stessa oggi non mi sento in gran forma, ma so cos'è: a differenza del giorno prima sono seduta nel sedile posteriore della pur comoda 4x4 e il continuo su e giù fra le dune mi dà il… "mal di mare". Alla prima sosta, pur sotto il solleone, mi stendo sulla sabbia come crocifissa e mi sento subito meglio.
Arriviamo in zona Ksar Ghilane nel pomeriggio, dopo aver fatto sosta per il pranzo in una capanna di foglie di palma, dove il fuoco per grigliare la carne è stato acceso, al solito, raccogliendo sterpaglie e rami secchi nei dintorni, sotto gli occhi indifferenti dei dromedari al pascolo.
Penetriamo nell'oasi di Ksar Ghilane fra un muro di tamerici, mentre uno stormo di uccelli bianchi si stacca dalle chiome per prendere il volo verso il blu. Lungo il vialetto d'ingresso, fiancheggiato da un canale d'irrigazione, riscopriamo finalmente l'ombra, in silenzio, a tratti estasiati.
Penetriamo nell'oasi di Ksar Ghilane fra un muro di tamerici, mentre uno stormo di uccelli bianchi si stacca dalle chiome per prendere il volo verso il blu. Lungo il vialetto d'ingresso, fiancheggiato da un canale d'irrigazione, riscopriamo finalmente l'ombra, in silenzio, a tratti estasiati.

Ma la posizione è di nuovo superlativa, con vista sui resti, in cima ad una collinetta, dell'antico forte romano di Tisavar, baluardo lungo il limes tripolitanum, eretto per difendere l'estremo confine meridionale del mondo allora conosciuto dalle tribù berbere del deserto. A loro volta i berberi, alcuni secoli più tardi, trasformeranno il forte dell'impero romano in uno ksar (villaggio fortificato) contro l'invasione araba, mentre nel XX secolo il sito verrà occupato dalla legione straniera francese e, durante la seconda guerra mondiale, anche dai tedeschi.
Così ricca di storia, la fortezza da lassù ci attrae e in pochi minuti la raggiungiamo a piedi, mentre il tramonto sembra sfumare non solo i colori, ora rosei, ma addirittura le forme di quei sassi impilati che ancora delimitano le celle, ormai invase dalla sabbia.
Il sole è già sparito sotto l'orizzonte quando veniamo richiamate per la cena, servita magnificamente al lume di candela sotto ad una tenda in cotone. La specialità di questa sera, innaffiata con dell'ottimo vino, è l'agnello con patate cotto in due alte anfore sepolte per metà nella sabbia e nelle braci, versato poi direttamente in tavola in due grandi piatti concavi, da cui ciascuno può servirsi a piacere.
A tavola, come ad ogni pasto, è un tripudio di lingue: italiano, francese, inglese, arabo, a volte anche mischiati tra loro. L'importante è capirsi e l'alcol aiuta senz'altro, anche a scaldarsi: le chiacchiere terminano all'esterno, in un fantastico chiaro di luna, e fa fresco.
8 aprile 2014
Da Ksar Ghilane (Sahara) ritorno a Douz
Salvata la colazione, perlustro la zona a caccia di qualcosa finché non scovo tre dromedari al pascolo dietro ad una serie di dune, ai quali scatto foto su foto. Di lì a poco vengo però richiamata al campo: la carovana sta ripartendo per tornare all'oasi di Ksar Ghilane per un'escursione in quad nel deserto.

Oggi, comunque, il viaggio si rivelerà così accidentato - a causa di insabbiamenti multipli nel fesh fesh, guasti ai motori e forature di gomme - che alla fine, per rientrare in tempo per la cena all'hotel di Douz, si farà meno fuoristrada sulle dune e più pista battuta. Tuttavia, come già detto, per noi viaggiatrici rimane entusiasmante assistere alle manovre dello staff all'opera con cric, corde, ganci e pale, o stupirci delle vertiginose inclinature delle 4x4 intrappolate sulle creste delle dune.
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"Pesce del deserto" |
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Orme di ratto del deserto |
Poco prima invece, al forte romano di Tisavar, abbiamo visto solo le impronte del ratto del deserto, assai particolari perché in rilievo anziché impresse in profondità, per via dei rapidi salti con cui alza la sabbia, avanzando simile ad un canguro in miniatura.
Risalendo verso nord, una sapiente deviazione dalla lunga pista che si perde all'infinito davanti a noi, ci porta al cospetto di una semplice quanto graziosa costruzione a pianta quadra con cupola semisferica, il cui candore si staglia nel cielo, oggi di un blu da cartolina. È una delle tombe erette nel sud della Tunisia in corrispondenza dei ritiri di santi eremiti, i marabutti. Ma dentro non c'è nulla, se non una stufetta ricavata da una tanica in ferro, tutta arrugginita, appoggiata al muro tappezzato di recenti incisioni e scritte col pennarello.

Cotti e impolverati, noi arriviamo invece all'hotel El Mouradi di tre sere prima desiderando solo un tuffo nell'ampia piscina esterna, nonostante il sole stia ormai tramontando e l'acqua sia piuttosto fredda. L'ardire lo troviamo in pochi, ma che benessere!
9 aprile 2014
Da Douz a Matmata: i villaggi trogloditici e il deserto roccioso
(VIDEO) Da lassù si distinguono innanzitutto le palme ordinate, una a fianco all'altra come ombrelloni negli stabilimenti balneari dell'Adriatico del nord, i verdi rettangoli delle coltivazioni, i dromedari e i cavalli che aspettano di portare i turisti nel deserto, le chiare abitazioni della parte più moderna della città, e le scintillanti tribune, con ingresso ad arco merlato, che si affacciano sulla grande spianata dove a dicembre si tiene il festival internazionale del Sahara, famoso in tutto il Maghreb. Ma soprattutto, con una virata verso sud, appare una distesa infinita di onde fra la sabbia dorata, fisse come in un fermo immagine, ma morbide e invitanti come pieghe di seta rilucente.
Ci spostiamo verso la regione di Matmata, a circa 600 metri sul livello del mare, dove si trovano i villaggi trogloditici berberi più famosi della Tunisia, da quando, nel 1977, George Lukas vi ambientò uno degli episodi della saga di Guerre stellari. Il perché è presto detto: il paesaggio, lunare, apocalittico, in tutte le gradazioni del marrone, specie quelle più chiare, ben si presta a fare da sfondo a vicende fantascientifiche. E' ancora una volta deserto, ma roccioso: i rilievi calcarei, coperti da strati sabbiosi e argillosi, presentano una vegetazione stepposa e in alcuni casi terrazze per piantagioni di ulivi.
I crateri scavati nell'altopiano corrispondono ciascuno a piccoli villaggi di berberi, in parte tuttora abitati, che qui si rifugiarono nel Medioevo per sfuggire alla colonizzazione araba, dando luogo alle note abitazioni rupestri, temperate, e dall'architettura perfettamente integrata nel paesaggio.
I crateri scavati nell'altopiano corrispondono ciascuno a piccoli villaggi di berberi, in parte tuttora abitati, che qui si rifugiarono nel Medioevo per sfuggire alla colonizzazione araba, dando luogo alle note abitazioni rupestri, temperate, e dall'architettura perfettamente integrata nel paesaggio.
Ci fermiamo a visitare uno di questi villaggi che si affaccia sulla strada. Entriamo sotto terra attraverso una piccola porta ricavata lungo il fianco di una collina e percorriamo in penombra un basso corridoio in discesa, scavato nella roccia e lungo una decina di metri, alle cui pareti sono appesi attrezzi da lavoro.
Sbuchiamo in un cortile circolare a cielo aperto, scavato nella morbida roccia e abbagliante per via della calce con cui sono state rivestite le pareti. Vi si affacciano una decina di porte, che possiamo varcare liberamente (ovvio, in cambio di un'offerta finale): sono le uniche aperture di altrettante stanze scavate nella terra, semplici e ordinate. Veniamo invitati a sederci sui tappeti di un'ampia stanza, dove le donne ci servono una merenda dalla bontà sorprendente: thè caldo alla menta accompagnato da pezzi di pane da intingere in un piatto che mescola assieme olio e miele.


Negli anni '60 del secolo scorso, del resto, il governo fece di tutto per trasferire in pianura i berberi ancora arroccati in questi villaggi, in modo che potessero usufruire più facilmente di acqua corrente ed elettricità.
Gli effetti dello spopolamento sono evidenti anche al villaggio berbero di Tamezret, arroccato sulla cima di una collina che domina l'altopiano del Dahar, a 460 metri d'altitudine. Il pittoresco villaggio in pietra, ai cui piedi passa la strada per Matmata, si sta via via sgretolando, mentre gli abitanti si trasferiscono in nuove case di cemento, giù in pianura. L'intrico di viuzze appare comunque piastrellato di recente.
10 aprile 2014
Il forte di Es Sabria e le rose del deserto a El Faouar
E' solo quando usciamo al sole, dopo aver attraversato Douz all'ombra delle sue innumerevoli palme, che ci rendiamo conto che la giornata è calda, molto più calda delle precedenti.
Lasciamo quasi subito la pista battuta per raggiungere tra basse, accecanti dune color champagne, una zona a ridosso di Douz, dove affiorano dalla sabbia tracce di una città morta. Sono i ruderi di abitazioni berbere abbandonate e lasciate alla mercè del tempo e del deserto, tant'è che Khaled, l'autista sulla cui auto siedo oggi, ci assicura che sotto ad ogni duna, tra una palma e l'altra, c'è almeno un'abitazione sommersa.
Khaled è molto preparato, oltre che cortese e flemmatico: in auto lo tartassiamo di domande che gli rivolgiamo tramite Francesca, una compagna di viaggio che parla il francese che è una meraviglia, e lui ha risposte sempre convincenti e precise. So già la risposta, ma durante una pausa provo ad arrangiarmi, gesticolando, a chiedergli se desidererebbe andarsene dalla Tunisia: mi risponde di sì, ma per visitare il mondo, quindi avendo i quattrini; per il resto lui ama la sua terra e sta bene lì. Appunto.
Dopo un burnout in 4x4 sulla sabbia (VIDEO), cui non ha saputo resistere il meccanico tunisino al nostro seguito, soprannominato Geronimo, proseguiamo verso ovest di circa altri 30 chilometri in direzione Es Sabria. Ci rechiamo a visitare un forte in pietra della legione straniera francese, con soffitti a volta, che dev'esser stato oggetto di un recente restauro e ampliamento per farne una struttura ricettiva, se non altro per le scritte bar e restaurant che si intravedono sbiadite sopra ad un paio di ingressi che si affacciano su un cortile con pozzo.
Da El Faouar proviene la maggior parte delle rose del deserto vendute sulle bancarelle e nei negozietti di souvenir di tutta la Tunisia. Noi ci rechiamo proprio alla cava dove vengono estratte. O, meglio, venivano, perché quando arriviamo noi, non c'è traccia di alcun cantiere. Solo, in mezzo alla spianata circondata da un cordone di dune chiarissime, si vedono due larghe e basse capanne abbandonate, fatte con graticci di foglie di palma, che servivano agli addetti per ripararsi dal sole.
Parcheggiamo le auto in mezzo al plateau da cui affiorano miriadi di piccole rose del deserto, in particolare sui cumuli di sabbia. E' il vento infatti a disvelare queste concrezioni di petali minerali a base di gesso, le più piccole delle quali si trovano a pochi centimetri di profondità, le più grandi ad alcuni metri. Fino a poco tempo prima, ci spiega lo staff, la cava era tempestata di crateri per l'estrazione delle rose, che una volta abbandonati si sono cancellati senza sforzo dall'azione congiunta di vento e sabbia.

11 aprile 2014
Il lago salato Chott El Jerid e il Lezard Rouge di Metlaoui E' il giorno della risalita verso Tunisi: domani si prende l'aereo per Milano. La sveglia è all'alba perché vogliamo fare tappa a Metlaoui per salire su un trenino d'epoca, il Lezard Rouge, da cui si possono ammirare fantastici scenari. Ma qui in Tunisia, del resto, quale scenario non è fantastico nel senso letterale della parola?

Noi lo percorriamo col bel tempo, fiancheggiati da due irregolari fasce bianche di sali affiorati, mentre il resto dell'immensa spianata cristallizzata è per lo più bronzo-oro: fin laggiù a est, dove sbatte contro una catena di bassi rilievi cerulei. La crosta però è cangiante, per via del continuo processo di evaporazione e cristallizzazione del sale che viene in superficie a seguito delle (scarse) piogge. Basta infatti una nuvola o anche solo passare dopo 5 minuti per trovare la superficie mutata nei colori e nelle striature che si perdono all'orizzonte, sotto un sottile strato di sabbia portata dal vento.
Arriviamo alla stazione ferroviaria bianco-celeste di Metlaoui (qui in Tunisia i nomi delle città fanno spesso l'en plein di vocali!) giusto in tempo per salire sul famoso Lezard Rouge (Lucertola Rossa), fatto costruire nel 1910 dal bey di Tunisi per raggiungere la sua residenza estiva. Completamente restaurato negli anni '90, il trenino amaranto conserva ancora il fascino dei treni del primo '900: carrozze, gradini e pavimento in legno, cancelletti in ferro battuto, sedili in legno per quella che doveva essere la seconda classe e comode poltrone e divanetti imbottiti per la prima, a fianco della quale è ancora ben conservato l'ampio bagno del bey.
Tornati a Metlaoui, risaliamo sui pulmini in direzione nord, con sosta nella città universitaria di Gafsa per un pranzo veloce.
Fuori dai finestrini, via via che ci si avvicina a Tunisi, l'ocra lascia sempre più spazio al verde della terra fertile. Anzi, la pianura che si estende ai lati della strada, è un vibrante arcobaleno di colori che raggiunge una catena di rilievi di modesta altezza, livellati in cima.
Prima di sistemarci all'hotel El Mouradi di Tunisi (5 stelle) per l'ultima notte prima del volo di rientro in Italia, deviamo per la vicina Sidi Bou Said, che comunque molti di noi già conoscono (me compresa). La cittadina, com'è noto, è una bomboniera bianco-celeste, meta imprescindibile del turismo di massa della costa tunisina. Ma dopo una settimana di deserto, come chi si gusta il cioccolatino col caffè a fine pasto, vogliamo anche noi farci una coccola, concederci un "golosesso", come direbbero a Venezia, lustrandoci gli occhi fra i battenti turchese delle abitazioni, le scintillanti bancarelle ancora aperte e i tavolini celesti dei locali sotto le fronde degli alberi.
Siamo stanchi, inutile nasconderlo, ma più ricchi: di cose viste, cibi assaporati, persone incontrate, emozioni vissute, che ciascuno - come dopo ogni esperienza così intensa - rielaborerà per conto suo, nel suo habitat quotidiano, mettendoci un po' di Sahara in tutto quello che fa.
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Un grazie speciale a Horizon Travel (Massimiliano e Francesca) per avermi imbarcata in questa fantastica avventura, a Desertrats Tunisia e Desertrats Trips (in particolare a Benny, Max, Mahjoub, Slim e Geronimo) per avermi trasmesso il desiderio di scoprire l'Africa, e a tutti i compagni di viaggio per i bei momenti trascorsi assieme (Arianna, Bruna, Davide, Francesca R., Gaia, Laura, Lisa, Silvana, Susanna e Vania).
Ringrazio inoltre il fotografo Chakib Ben Sassi per i preziosi suggerimenti, la mirabile pulizia della mia fotocamera dal fesh fesh e la concessione di alcune sue foto, e gli autisti Alì, Khaled e Memeth, che mi hanno condotta nel deserto con grande gentilezza, senza mai farmi sentire in pericolo.
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Bibliografia:
"Desiderio di deserto", Alain Laurent, Feltrinelli, 2000
"Tunisia", Lonely Planet, Edt, 2010
Discografia:
"Tea in the Sahara" (Synchronicity), The Police, 1983
"Desert rose" (Brand new day), Sting, 1999
"Snow in the Sahara" (Au Nom de la Lune), Anggun, 1997
"I treni di Tozeur", Franco Battiato e Alice, 1984
"Africa" (Toto IV), Toto, 1982
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